Capitolo I
Tutto cominciò una calda mattinata di un anonimo fine settembre, sotto un sole ancora incredibilmente cocente. In bocca percepivo il sapore salato delle acque del Mediterraneo e della sabbia, che si era collezionata lungo il cammino su quelle spiagge ove girovagavo con amici in cerca di emozioni e giri di follia vari. Senza mai trovare tuttavia il giusto posto e senza potere mai affermare poi, con stile e sguardo di chi la sa lunga, di avere trascorso momenti da almanacco sentimentale. Momenti da portare sempre con me, per poi, magari un giorno, riviverli e riderci sopra.
La brezza di mare accarezzava la pelle di quei ritardatari lupi di mare non ancora soddisfatti delle conquiste. L’aroma secca e salata di quella brezza si sentiva ancora sulla pelle come un profumo a lunga durata dalla quale difficilmente ci si sarebbe potuto sbarazzare. Una specie di marchio obbligatorio di chi viveva al sud.
Le serate in spiaggia a Mondello, o a Isola delle Femmine, o a San Vito, dove il vecchio Mirko, un amico dall’animo nobile conosciuto negli ambienti universitari, aveva trovato lavoro per la stagione presso una pizzeria rinomata, ancora persistevano nella memoria di tutti coloro che non avevano chiuso le trattative in corso. Da quelle serate scaturivano tutta una serie di discorsi, estimazioni e scenate che ancora restavano aleggianti nell’aria torrida da deserto sahariano.
La stessa mattina di quella torrida giornata, la sveglia del cellulare si era messa a suonare senza pietà strappandomi da un sonno pesante e da una voglia di restare a letto fino alle dodici, guardando la tele. Spinto da una accidiosa forza magica e da alcuni raggi solari, che spavaldi entravano dritti in quella camera, allungai il braccio per staccare la sveglia e quasi feci cadere il cellulare a terra tramite movimenti convulsi.
Mi alzai con in testa un dolore acuto e indemoniato. Avevo la schiena tutta bagnata e la bottiglia da un litro e mezzo d’acqua minerale era vuota e distesa sul pavimento, vittima di quel caldo afoso che neanche la notte e l’assenza di sole riuscivano a calmare.
Dopo una doccia rinfrescante, ritornai in camera trovando la sveglia del cellulare ancora suonante. Era quella di riserva in caso mi fossi riaddormentato.
In una stanza adiacente alla cucina, mia madre stirava un paio di camicie. Le feci un breve cenno di saluto e lei alzò la testa in segno di risposta con una smorfia come a dire: era ora che ti alzassi. In cucina la luce del sole entrava filtrata dalle tende che coprivano le due grandi finestre e l’aroma del caffè regnava timido e sparso in tutta la stanza. Nella grande caffettiera restavano due tazze di caffè ormai freddo. Riempii quindi un bicchierone di latte freddo e, senza mettere zucchero, spruzzai sopra un po’ di cioccolato in polvere aggiungendo il caffè che restava. Lo feci fuori con lunghe sorsate sentendo tutta la sua freschezza e il suo sapore amaro risalire dallo stomaco lasciandomi una sensazione alquanto disgustosa in bocca.
Dopo una buona mezz’ora d’indecisione e senza trovare una minima traccia di motivazione per raggiungere la facoltà, decisi di prepararmi. L’intenzione era quella di uscire e sperare che fosse il giorno buono per ricominciare un’annata di studi e conferenze, ricerche approfondite, serate in locali per giovani stressati e indecisi.
Di sicuro quella luce e quel calore che entravano in casa non mi davano quella giusta dose di coraggio per raggiungere gente come Mirko. Avrei preferito andare a correre da qualche parte. Magari in un parco verso Altofonte, tipo da mio cugino Stefano, dove un boschetto quell’estate se l’era vista brutta in seguito all’azione dei piromani. Meno male che la forestale e i vigili del fuoco erano intervenuti tempestivamente evitando il peggio.
Comunque quell’estate ero stato fatto preda dai miei genitori in vacanza per due settimane in Versilia, nell’atmosfera decadente di un villino di amici del babbo. Per fortuna che c’erano state parecchie serate in spiaggia con tipi provvisti di chitarre e joint, che cercavano di interpretare certi pezzi intramontabili del Battisti o del Lennon, seduti all’indiana attorno ai fuocherelli.
Una certa Caroline in particolare, proveniente dal cugino paese transalpino, aveva suscitato in me un’ondata di emozioni. Alcune di queste si erano tradotte in sudate estreme e tecnica di spinte stroncanti nel letto, tutto tremolante e rumoroso, della sua camera nella pensioncina “Le due rive”, che divideva con un’amica grassona dalle tette bomba e una portaerei al posto delle chiappe. In più l’amica aveva un viso devastato dall’acne che neanche gli specialisti più rinomati degli States avrebbero mai potuto portare ad un livello accettabile.
Caroline invece portava con sé il fascino delle tipiche normanne dalle guance rosse, il naso all’insù, un breve accenno di lentiggini rossastre sulle guance, due occhietti verdemare e profondi, una pelle chiarissima, gambe lisce e lunghe e dei morbidi capelli tagliati corti, leggermente rossicci, che col sole prendevano riflessi color rame.
Ci eravamo scambiati in maniera naturale i numeri dei cellulari dopo esserci ritrovati per caso seduti attorno lo stesso tavolino di una terrazza di gelateria, mentre cercavamo di comunicare con gesti e ampi sorrisi criticando il caldo ed elogiando la bellezza del paesaggio. Avevo appuntato, per rispetto, pure il numero della ragazza bomba, dopo aver lasciato pagare la granita a Caroline che mi trovava abbastanza sympa e mignon, che tradotti significavano simpatico e bello.
Il giorno prima della mia partenza, mentre loro restavano ancora qualche giorno, trovai Caroline alle prese con un esagerato bacio alla francese, strettamente abbracciata ad un tipo tutto muscoli, mandibola da pitbull e un tatuaggio sulla spalla destra. Rimasi ad osservarli qualche minuto mentre erano intenti a scambiarsi la lingua distesi sulla spiaggia. Il mastino le carezzava le cosce e arrivava fino alle chiappe e lei che si stringeva sempre di più.
Avevo passato tutta la notte su quella stessa spiaggia a bere con l’amica mostruosa consolandomi con le sue tette prendendole come morbidi e caldi cuscini sopra le tovaglie. Non ci capivamo molto. Lei parlava e io le facevo di sì con la testa. Compresi solamente che la mattina della partenza mi ero ritrovato completamente sbronzo e pieno di sensi di nausea, e tutta la discesa verso l’isola sull’autostrada l’avevo passata a dormire. Quando mi svegliavo i sensi di vomito prendevano il sopravvento e il babbo era costretto a fermarsi. Si arrabbiava con mamma e lei gridava, dando la colpa a lui mentre io vomitavo sul ciglio della strada con le auto che mi sfrecciavano a pochi centimetri e a centotrenta all’ora.
L’estate in quella parte di Europa era molto lunga e asfissiante, i sintomi della tropicalizzazione si facevano sentire ormai da diverso tempo e, in certe parti del sud, intere aree erano fortemente minacciate dalla desertificazione. Si parlava, come ammettevano certi praticanti di università in conferenze a tema, di un vero miracolo contro natura, che metteva in pericolo l’intera biodiversità di quel territorio. Il risultato era che un giorno avremmo potuto fare crescere delle piante di banane nel giardino sotto casa e tenere iguana e altre specie tropicali senza particolari problemi di ambientamento e nutrizione.
Ricordo quando ad una conferenza, un professore venuto direttamente dagli States, col suo italiano americanizzato si era messo a gridare e sbattere il pugno sulla cattedra come un senatore candidato alla presidenza. Parlava del clima che diventava pazzo e dei presidenti degli stati membri del G8 che non facevano nulla per evitare possibili catastrofi naturali.
Gli sguardi di certi nostri professori connazionali, che lo osservavano incerti e preoccupati, la dicevano tutta sulla gravità della cosa. Non tanto per la desertificazione e i problemi ad essa collegati, ma del fatto che avrebbero dovuto sopportare quel professore e la sua veemenza nelle cene organizzate e durante tutta la durata del suo soggiorno. Eravamo stati costretti a vedere pure il film documentario di Al Gore e dopo ci era pure stata data la possibilità di porre domande al professore statunitense che rispondeva sempre con accentuati scatti d’ira.
Quell’estate, che non aveva nessuna intenzione di archiviarsi, rimescolava intatte alcune scene e situazioni trascorse. Tipo tutte le brutte figure, e incomprensioni, e inconvenienti di fronte a ragazze più o meno impaurite, più o meno impavide e vissute, talvolta bloccate da gravità superiori spesso insormontabili. Come nel caso di alcune vecchie conoscenze femminili teneramente bloccate dal fatto che il proprio fida fosse partito lontano per differenti motivi e mansioni, portandosi dietro quel briciolo di libertà che restava a quelle poverette, che ancora credevano alla favola della fiducia e del ritorno glorioso del proprio principe azzurro. Ne scaturivano alcune scene da vere soap scadenti, con scatti di ira e perdite di controllo di certune che, dopo tristissime esperienze e cuori sbriciolati come cristalli, si erano date alla pazza gioia e vita da libertine assolute e scopatutto. Roba da matti.
In quel periodo ero sempre in compagnia di diversi irriducibili e vecchi compagni di liceo che neanche il tempo o le aspirazioni o i semplici ma irrimediabili casi della vita hanno potuto allontanarci. Gente come Ivan Galioto con la sua peugeot rossa fiammante coupé cabriolet, mago informatico perennemente alla ricerca di guai per scaricare programmi e documenti a volte d’importanza nazionale. Ivan era uno dei pochi cui potevi chiedere qualsiasi favore a livello informatico. Scaricava praticamente di tutto e possedeva un giro illegale di cd e video abbastanza radicato all’interno dei mercati del centro.
Poi c’era Peppe Mancino, che quell’estate aspettava con mite pazienza fine Ottobre, dove gli alti spigoli innevati delle Alpi svizzere e il calduccio di un frenetico ristorante Molino nei pressi di Berna, lo attendevano per una lunga e rigida stagione invernale. Il suo sguardo parlava chiaro, nascosto dietro le lenti di un paio d’occhiali scuri che lo avvicinavano più a un moscone che a un giovane di belle speranze. Come belle e inavvicinabili si presentavano le speranze per arrivare a certe ragazze complessate e apparentemente dotate di uno spirito equilibrato. E altrettanto belle, pensavo, fossero anche le speranze per un altro anno di facoltà insieme a tipi come Mirko Lo Cicero, e ai volumi da procurarsi tra spintoni e gomitate all’interno delle minuscole librerie dell’usato in corso Vittorio Emanuele.
E se il buon vecchio Peppe Mancino aveva intenzione di turbare gli indecisi piani del mio immediato futuro con la speranza di trascinarmi con lui nella traversata che lo avrebbe portato nelle Alpi svizzere per del duro e ben ricompensato lavoro, non c’era riuscito per niente. Il muro, che avevo costruito tramite le mie vecchie e indimenticabili esperienze nel settore, aveva retto a meraviglia come la grande muraglia cinese dagli assalti nemici.
E anche se c’era la mezza idea di mandare in aria la facoltà, non volevo gettarmi dentro una brigata comandata da qualche maître con troppe ambizioni. Un viaggio a scopo benefico l’avrei fatto. In India o in Brasile o nell’isola di Borneo, in mezzo a nature incontaminate e gente che si rifugiava nello spirituale per scampare dalla brutalità degli uomini.
Intanto a un migliaio di chilometri più in alto, Ettore Crisani rientrava dal suo soggiorno di Maiorca. All’aeroporto di Linate dovette aspettare circa trequarti d’ora prima di vedere spuntare le costose valigie in pelle uscire dal tunnel. Con lui c’era Marta, la sua nuova ragazza, figlia di un noto banchiere milanese. Indossava un top stretto sul petto e una gonna rosa che le scopriva le gambe abbronzate e lisce. Osservava con aria di distacco la marea di gente e turisti che se ne stavano in attesa delle loro valigie.
Flavio li aspettava fuori dall’aeroporto, maledicendo il caldo e i capricci del suo capo. Flavio era un spilungone lombardo, dall’alta cresta perennemente in balia del vento, che oltre ai compiti di leccapiedi delle varie situazioni, copriva il ruolo di assistente personale di Ettore nel suo nuovo studio di corso Buenos Aires.
Ad ogni nuova persona che usciva attraverso le porte scorrevoli in vetro, alzava la sua testa come una tartaruga e, quando capiva che non si trattava delle persone giuste, la riabbassava come mortificato.
Finalmente i bagagli erano arrivati e Ettore, dopo averli caricati su un carrello, si era incamminato verso l’uscita, seguito da Marta a breve distanza che si preoccupava di portare solo la sua nuova borsa griffata comprata a Maiorca.
Era già la terza volta quell’estate che Flavio andava a cercare la coppia con la Passat station wagon di proprietà dell’agenzia. E quella è stata la prima volta che Marta si era degnata di un saluto, seguito da un sorriso e uno scambio di baci. Anche se il tutto aveva una chiara vena di falsità per Flavio, quello era un giorno da segnare con una croce sul calendario.
Dopo avere caricato i bagagli sull’auto, Flavio dovette cominciare a sorbirsi la rabbia di Ettore.
“Come diavolo è possibile!” disse Ettore, duro come se la colpa fosse tutta di Flavio.
“Ti giuro che quando l’ho visto entrare e ha minacciato di spaccare tutto avrei potuto sparargli se avessi avuto una pistola.
“E tu hai chiamato la polizia?” chiese allarmato Ettore.
“Che dici? Però Elena stava per farlo e l’ho bloccata in tempo.”
Così raccontava la sua versione Flavio, soddisfatto di avere agito da vero eroe e magari sperando che ci scappasse pure un complimento che ovviamente non arrivò.
“Meno male. A questo gliela facciamo vedere noi, non paga e pure gli viene in mente di minacciarci. Chi si crede di essere? Mi ha pure rovinato la parte finale della vacanza.”
Dicendo in questo modo Ettore si era accalorato e subito dopo dovette rimangiarsi la parte finale della frase lanciando un tenero sorriso a Marta che lo guardava con un’espressione di sufficienza.
Intanto Flavio si era immesso su una strada incasinata dove un vigile, a cui era stato affidato il difficile compito di smistare il traffico ad un incrocio molto frequentato, si scorgeva in lontananza. Marta sbuffando aveva detto che avrebbe potuto scegliere una strada migliore e soprattutto meno incasinata. Flavio si era automaticamente giustificato dicendo che ci sarebbe stato casino dappertutto, che era la fine delle vacanze e che tutti rientravano in quel periodo.
“Beh, stasera invieremo un bel biglietto al nostro amico con un ultimatum, e, a fine di quello, invieremo la pratica al tribunale che dico io” sottolineò deciso Ettore, mentre Flavio non capiva se il proprio capo volesse veramente mandare la pratica in tribunale o se fosse stata solamente una provocazione collaudata per omettere frasi più dure.
Capitolo II
La doccia sul mio corpo non aveva avuto effetti di lunga durata. Mi aveva rinfrescato un po’, ma non era servita ad abbassare il senso di soffocamento che provavo ad ogni passo, mentre ri recavo alla fermata delll’autobus numero duecentosessanta, con l’intento di raggiungere la città studi.
Attraverso i vetri dell’autobus giallo scorgevo il mio viso al quale in quei frangenti davo trent’anni. Mi ritrovavo con un capello di un nero intenso e lucido e un taglio polifunzionale, stile bravo ragazzo che non ama le stranezze delle acconciature contemporanee. Quel tipo di capello lasciava spazio alle leggere ed equilibrate ondulazioni che seguono da sole il disegno del cranio. Osservavo le basette che cadevano lunghe e spesse fino ai lembi delle orecchie e mi conferivano anche un’aria da deciso che condividevo.
Lontani erano gli anni accattivanti e disastrosi delle medie superiori. Lontane le lunghe e fastidiose battaglie per l’assestamento del fattore viso e apparenza esteriore. Ormai erano lontane le puntine che apparivano ogni tanto sparse nella parte inferiore della mandibola. Lontane le battaglie degli ormoni che spesso mi gettavano in una specie di abisso psicofisico pericoloso, da cui uscirne mi costava parecchia fatica a livello di incomprensioni con l’altro sesso. Perché ovviamente tutto girava in funzione dell’altro sesso.
Non sapevo perché e da chissà quale forza superiore fossi spinto, ma mi gettavo perennemente in mezzo a storie ultracomplicate con ragazze del quarto e del quinto liceo. Poi le sere primaverili, quando anche i più timidi ormoni si risvegliavano, portavo a termine le trattative, cercando ovviamente di non dissestare troppo i pomeriggi di studio per preparare gli esami di maturità e, negli anni che seguivano, gli impegni dei corsi universitari che mi sottraevano una quantità atroce di tempo.
Un ennesimo rinvio del professore di politica internazionale di cominciare le lezioni aleggiava nell’aria dei corridoi della facoltà a cui ero iscritto. Un foglio A4, attaccato alla porta della grande aula, informava i malcontenti universitari che la prima lezione era stata ancora rinviata per cause superiori. Una firma fatta in basso al foglio avrebbe dovuto autenticarne la provenienza, ma parlare di sabotaggio era la cosa più logica.
Sentivo un certo fremito all’interno dello spirito che mi faceva augurare qualcosa di non molto positivo per l’immediato futuro. Qualcosa del tipo un presentimento per cambiare in maniera radicale con il presente e per cercare di recuperare quello che di buono in me ancora non si era perso.
“Salvare il salvabile” sarebbe stato il mio motto per non inabissarmi nel pericoloso pozzo della depressione. E se mio padre insisteva per convincermi che lavorare fosse la soluzione migliore, invece di continuare a perdere tempo con quei rinvii, di certo non potevo dargli torto.
Intanto gruppetti di ragazzi se ne stavano a discutere in corridoio e a svariare su fatti astratti e su qualche notizia del telegiornale che riportava peggioramenti della situazione geopolitica o economica del mondo. Il loro vocio non disturbava certo alcuni professori che passavano di rado trascinando con loro certe arie di superiorità. All’interno di qualche altro gruppetto un rasta rideva forte e faceva ampi gesti con le braccia.
L’idea di quei tempi comunque era che non appena finito il ciclo universitario, trovare lavoro sarebbe stato come vincere un sudoku al massimo livello in meno di trenta secondi. Ovvero mission impossible. Ma di questo eravamo più che coscienti. Allora tanto valeva portare a casa un titolo di studio superiore e magari incorniciarlo ed esibirlo come trofeo d’incoraggiamento.
Ancora un rinvio per dei motivi non specificati. Le stesse voci, che giravano nei corridoi, parlavano dei brutti rapporti tra il professore egregio signor Galeoto e un dirigente dell'università, relativamente al rinnovo del suo personale contratto e altre frottole del genere.
Altri dicevano fosse per certi sputtanamenti tra i vari professori e, pensando alla maniera generale del campo universitario, a quest’ultima opzione davo maggiore importanza.
Ma il fatto, nel frattempo, esisteva ed era realmente grave e trita cervella.
Ancora un rinvio e le lezioni più importanti non cominciavano proprio e, di sapere la data, neanche la benché minima ombra di circolare scritta, magari per calmare gli animi generali.
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